Quando parliamo di colonialismo la prima immagine che ci viene in mente è quella di potenze mondiali che controllano Stati più deboli: questa concezione è legata ad eventi passati, molto lontani nel tempo. Tuttavia non è così: esiste infatti un nuovo tipo di colonialismo, detto “neocolonialismo”, che si basa sul controllo economico da parte di Stati, ma anche e soprattutto di multinazionali, su paesi più deboli o su popolazioni svantaggiate. Ma andiamo per ordine.
Tra la fine del 1800 e i primi del Novecento la maggior parte delle colonie iniziano a ribellarsi per ottenere l’indipendenza. In America Latina abbiamo i primi paesi a rendersi indipendenti: Argentina, Cile Paraguay, Perù, Brasile ecc. Tuttavia queste indipendenze furono soltanto apparenti: infatti la Storia dell’America Latina durante il secolo scorso è caratterizzata da continui colpi di stato e dittature; tutti stati che inizialmente appartenevano a colonie spagnole o portoghesi e che ora si trovano sotto il controllo, ovviamente, degli Stati Uniti. Infatti tutti i dittatori sudamericani (come nel caso di Pinochet in Cile) furono sostenuti dal governo degli Stati Uniti, soprattutto durante il mandato di Eisenhower.
I nuovi capi di Stato dei paesi latino-americani non erano altro che dei “dittatori fantoccio” che si ispiravano ai totalitarismi europei e venivano supportati economicamente dagli USA; questi ultimi capirono come esercitare il loro potere economico su stati con un equilibrio politico estremamente fragile, servendosi di multinazionali che si basavano sulla produzione intensiva e estensiva di frutta tropicale. L’esempio più adatto è sicuramente quello della United Fruit Company, multinazionale che esercitava il suo potere sulla maggior parte dei paesi latinoamericani e che basava la maggior parte dei suoi profitti sulla produzione delle banane (non a caso i paesi in questione venivano chiamati “Repubbliche delle Banane”).
Conoscete la marca “Chiquita Banana”, sottogruppo della United Fruit Company? Scommetto di sì. Quello che forse non sapete è che per decenni quelle banane sono state sporche del sangue di centinaia di nativi costretti a lavorare nelle piantagioni: non parliamo del 1600, ma del secolo scorso! E quando nel 1928 i lavoratori scioperarono, i militari che sorvegliavano la piantagione risposero con una violenta rappresaglia: 100 morti e 238 feriti.
Uno scenario simile esiste tuttora, ma questa volta si svolge in territorio americano. Infatti a San Francisco l’85% degli immigrati messicani lavora nei campi. Alcuni di questi svolgono la professione di braccianti da circa 20-30 anni e sono pagati in base a quante casse riempiono ogni giorno, ovvero “a cottimo”. Ogni giorno raccolgono 900 kg di arance e guadagnano circa €100. Tradotto: 10 centesimi al kg. Inoltre alcuni alberi vengono trattati con il glifosato, un pesticida che si è rivelato essere cancerogeno; questi pesticidi vengono irrorati sulle piantagioni da aerei e quindi si disperdono nell’aria, danneggiando tutte quelle comunità messicane che vivono circondate da frutteti intensivi.
Forse questi fatti sono troppo lontani da noi? O magari ritenete che sia impossibile, perché in Europa cose del genere sono inammissibili. E poi, per quanto riguarda tutto ciò che viene dall’estero, si cerca di acquistare prodotti che provengono dal mercato solidale.
Peccato che, quella Italiana, non è sempre un’agricoltura solidale. Lo ha provato sulla sua pelle Marco Omizzolo, Professore della Sapienza che, vestendo i panni di un immigrato indiano, si è infiltrato tra i raccoglitori di kiwi destinati alle grandi produzioni presso Sabaudia. “Lavoravamo in condizioni avverse, sempre piegati, alcuni braccianti addirittura si dopavano, e il capo doveva essere chiamato padrone. Sui braccianti sono state perpetrate violenze di ogni tipo, molte donne sono state anche violentate. Nel 2015 abbiamo aperto uno sportello di immigrazione dove insegnavamo ai braccianti indiani le basi del diritto del lavoro. Per questo motivo abbiamo ricevuto delle intimidazioni: una volta abbiamo trovato una bombola di gas davanti all’entrata dello sportello immigrazione.”
Ma non vi preoccupate, perché come abbiamo visto in precedenza, tutto il mondo è paese! Cosa accade oggi in Costa d’Avorio, dove intere famiglie e comunità vivono immerse nelle fave di cacao? In queste comunità l’unico ad avere una casa in muratura con acqua, energia e anche una scorta è il sindaco, che gestisce la produzione delle fave. Considerando che nelle piantagioni di cacao si lavora solo per 6 mesi all’anno, i braccianti guadagnano annualmente la bellezza di 100.000 franchi, cioè 150€ (1€ al giorno). In queste piantagioni vengono utilizzati dei pesticidi anche nocivi, forniti dalla multinazionale Bayer (pesticidi che in Europa sono vietati) e i braccianti non utilizzano alcun tipo di protezione nel maneggiarli. Queste coltivazioni sono finanziate dall’americana Cargill ovvero un’altra multinazionale che compra le fave di cacao e che si vanta di essere un’associazione che “si impegna a far prosperare il mondo”. La Cargill è così generosa, che nel 2022 ha devoluto 163 milioni di dollari ai produttori e alle comunità locali di 56 paesi: sembra una cifra esorbitante, ma in realtà rappresenta lo 0,092% del fatturato, ovvero 9 centesimi ogni 100 dollari.
Il fatto più grave è che questo tipo di produzione è certificata da Rainforest e Fairtrade, dei noti marchi del commercio equo-solidale.
Da produzioni di cacao dove abbiamo manodopera sfruttata, acquistano le fave, tra altri acquirenti, la Ferrero e la Mars. E i nostri politici si sono piegati al cospetto di questi “dolci giganti”: il 27 Febbraio i governi dell’UE non hanno approvato un decreto che avrebbe obbligato le grandi aziende ad adottare obblighi stringenti sul rispetto dei diritti umani e sulla sostenibilità. Tra i paesi che non hanno votato a favore c’era l’Italia. A questo punto la domanda che mi faccio è: ma i trattori che hanno “manifestato” a Bruxelles non avrebbero potuto protestare per altro, piuttosto che contro la riduzione dei pesticidi?
GIULIA CARLONI, 5BL
One Comment
giulia masini
L’articolo è un campanello d’allarme su quanto il neocolonialismo sia ancora attuale, anche se con forme diverse rispetto al passato. Mostra come il controllo economico delle multinazionali sui paesi più deboli sia una nuova forma di colonialismo e racconta come le grandi potenze del passato abbiano ceduto il passo a giganti economici come la United Fruit Company, che in America Latina ha sfruttato le persone in modo disumano. Il collegamento tra eventi storici e situazioni odierne dimostra che lo sfruttamento è ben lontano dall’essere un ricordo del passato ed il racconto delle condizioni di lavoro degli immigrati messicani a San Francisco è un pugno nello stomaco, dimostrando che lo sfruttamento non è solo una cosa “da paesi lontani”. Smonta anche l’ipocrisia del commercio equo e solidale, che spesso non è così “equo” come sembra.
La parte sulle responsabilità politiche e sulle mancate azioni dell’UE, con l’Italia in prima linea tra chi non ha votato a favore di leggi più severe sui diritti umani, è davvero deprimente. In sostanza, questo articolo è un invito a a capire che dietro le apparenze di progresso e sostenibilità ci sono ancora molte ingiustizie.